In futuro, qualora la mozione venisse anche approvata dalla Camera dei Cantoni (ma qui dovrebbe avere vita dura e una bocciatura è assai probabile, n.d.r), eventuali modifiche sarebbero oggetto di un dibattito parlamentare e, in ultima istanza, attaccabili mediante referendum.
Il perché della mozione e del suo successo odierno sono facilmente comprensibili. Al momento di rendere nota la scorsa estate la volontà di allentare i criteri dell'export di armi, il Consiglio federale è stato subissato di critiche da parte di quasi tutti i partiti, per non parlare delle associazioni attive in campo umanitario e dell'aiuto allo sviluppo.
Fatto più unico che raro, anche il presidente del Comitato internazionale della Croce Rossa (CICR), l'ex segretario di Stato Peter Maurer, ha stigmatizzato pubblicamente la decisione del governo. Lo stesso consigliere federale Johann Schneider-Ammann ha dovuto ammettere oggi in aula di aver ricevuto molte lettere di protesta da parte di persone allarmate dalle intenzioni dell'esecutivo.
Viste le resistenze a livello di opinione pubblica, i gruppi parlamentari hanno quindi colto l'occasione per chiedere un dibattito urgente sulla questione durante questa sessione, venendo accontentati.
Nonostante le rassicurazioni del ministro dell'economia, che lascerà il suo posto a fine anno, sul fatto che il Consiglio federale "non è indifferente" a simili preoccupazioni e che i funzionari della SECO (responsabili di vagliare le richieste di esportazione di materiale bellico, n.d.r) non sono "mostri senza cuore", il Parlamento ha giudicato poco credibili le argomentazioni del Governo preferendo lanciare un segnale chiaro a tutti coloro che a suo avviso giudicano il profitto più importante dell'etica.
Per la sicurezza e i posti di lavoro
Inutili sono state quindi le spiegazioni del consigliere federale PLR, sostenuto dal suo gruppo e dall'UDC, secondo cui l'export di armi non verrebbe autorizzato verso Paesi coinvolti in una guerra civile, oppure che ad essere esportato, per periodi limitati e poi rinnovabili, sarebbe solo materiale per la difesa (radar, veicoli blindati).
Schneider-Ammann ha poi voluto giustificare le intenzioni del governo con la volontà di preservare una base industriale forte per la difesa nazionale, nonché posti di lavoro, dando alle industrie elvetiche, e alle numerose PMI coinvolte in questo settore, la possibilità di competere ad armi pari con le società estere, specie europee. Anche con questi adeguamenti, i criteri elvetici per l'export di armi rimarrebbero in ogni caso tra i più severi al mondo, ha sottolineato il consigliere federale bernese.
Simili argomenti sono stati ripresi anche da diversi esponenti PLR e UDC. Il Consigliere nazionale Walter Müller (PLR/SG) si è lamentato dell'emotività del dibattito sostenendo che i criteri cui saranno sottoposte le richieste di export verso Paesi alle prese con un conflitto interno sono tali da rendere quasi impossibili gli abusi.
Dello stesso parere Werner Salzmann (UDC/BE), secondo cui gli impegni internazionali della Svizzera e la sua neutralità non verranno toccati dai cambiamenti previsti dal Consiglio federale. Insomma, non assisteremo all'esportazione di granate o munizioni verso la Siria o lo Yemen.
Per entrambi si tratta anche di garantire posti di lavoro e una minore dipendenza possibile dall'industria bellica estera. Mantenere una base industriale significa contribuire alla nostra sicurezza. Per Salzmann, la mozione del PBD è puro populismo che rischia di indebolire in generale la nostra industria di esportazione dal momento che vuole uniformare i criteri di esclusione sanciti nella legge sul controllo dei beni a duplice impiego alla Legge sulle armi.
Preservare tradizione umanitaria
Di tutt'altro avviso le opinioni degli avversari della modifica proposta dal Consiglio federale, secondo cui un allentamento dei criteri inclusi nell'ordinanza metterebbero in pericolo la neutralità del Paese e la sua tradizione umanitaria.
Per Carlo Sommaruga (PS/GE) è chiaro: prima dei vantaggi economici viene l'Uomo. Il Consiglio federale, a suo dire, si è fatto influenzare dalla lobby delle armi, prendendo una decisione contraria agli obiettivi della nostra politica estera che sono la promozione della pace e dei diritti umani. Già nel 2014, l'ordinanza è stata edulcorata permettendo l'export di armi verso Paesi come l'Arabia Saudita che violano gravemente i diritti umani.
Secondo Sommaruga, l'argomento secondo cui bisogna preservare una base industriale è specioso, dal momento che la Svizzera dipende già dall'estero per dotarsi di armamenti strategici, come gli aerei da combattimento e altri sistemi d'arma complessi.
Favorire l'export di armi in un mondo sempre più instabile è irresponsabile dal momento che nessuno può conoscere l'evoluzione politica futura in certi Paesi sensibili, ha sostenuto.
A nome del PBD, Martin Landolt (GL) si è detto a favore dell'industria bellica, ma contrario a un allentamento dei criteri per l'export. A suo dire, nessuna industria responsabile può pensare di risolvere i propri problemi vendendo sempre più armamenti.
Ida Hunkeler Glanzmann (PPD/LU) ha giudicato poco accorta politicamente la decisione del Consiglio federale. Non è possibile mettere in pericolo il ruolo di mediatore della Svizzera nei conflitti internazionali, ha spiegato: ne va della nostra credibilità come Paese neutrale.
Per Beat Flach (AG) dei Verdi liberali, la contrazione dell'export di armi negli ultimi anni è dovuto soprattutto al franco forte e non al fatto che se ne vendono di meno. In un mondo sconvolto da conflitti e con milioni di persone in fuga la Svizzera deve dare ancora più peso alla sua tradizione umanitaria, invece di allentare i criteri per la vendita di armamenti. A suo parere, accogliendo la mozione del PBD, il plenum fa un favore alla Svizzera e alla sua reputazione: non dobbiamo metterci allo stesso livello di Paesi come gli Stati Uniti, la Gran Bretagna o la Francia, ha sottolineato.
A nome del Verdi, Balthasar Glättli (ZH) ha dichiarato che "i nostri nipoti saranno fieri di noi se diremo di no al governo". Il deputato ecologista ha ricordato i momenti bui della storia svizzera recente, quando pochi giorni dopo l'invasione della Polonia da parte della Germania nazista, il primo di settembre 1939, il Consiglio federale dell'epoca decise di allentare le esportazioni di armi. Anche allora si giustificò quel passo col desiderio di preservare posti di lavoro, ha aggiunto. "Dobbiamo esportare la pace, non la guerra", ha dichiarato l'ecologista zurighese.